Emigrato a Casalpalocco, ai confini della città da me conosciuta, ho iniziato ad orientarmi in un paesaggio totalmente diverso, straniante e desolato per uno come me proveniente dall’adrenalina, dalla confusione, dagli ingorghi, dal caos cittadino che però tanto mi rassicurava.
La skyline fatta di casette basse in stile anglosassone, alberi, prati e jogging, mal si intonava con la sostanza di un quartiere dormitorio, la cui vita sociale diurna, fatta di palestre, centri commerciali e supermarket si desertificava in una notte fatta di estrema solitudine.
Unica sua salvezza la vicinanza del mare. Non quello urbano di Ostia, quello di Capocotta, La riserva naturale del litorale romano. Un luogo selvaggio dove respirare la vera libertà.
In realtà c’ero già stato. Una volta, nei lontani anni 80, capitai lì per caso in un pomeriggio di un’estate torrida. Avevo 16 anni, varcai la soglia de “Il battello ubriaco”, uno dei chioschi alla ribalta delle cronache dei quotidiani per gli eccessivi festini, e mi trovai in un girone dantesco. Una musica assordante attraversava nuvole di un fumo dall’odore acre ed esotico simile a corda bruciata, corpi seminudi abbandonati sulla spiaggia, una polena di gesso trionfava di fronte alle vele spiegate di un albero da galeone spagnolo, indicando la via per il mare. Bevvi il mio primo mojto.
In realtà non ero pronto per tutto questo e di lì a poco fuggii in cerca di un luogo più tranquillo.
Ma Capocotta era li dà molto più tempo di me, simbolo di libertà, di anticonformismo, di potere per chi potere non vuole. La spiaggia dei romani e della romanità sapeva che le nostre strade si sarebbero incrociate di nuovo.
Così quando venni a Casalpalocco vent’anni dopo, e varcai di nuovo quel cancello, il nostro dialogo ricominciò da dove era stato interrotto per troppa paura di sentirmi libero. E’ vero, tanti eccessi erano andati via grazie alla regolamentazione imposta dall’allora sindaco Rutelli che aveva sostituito le gestioni abusive ed eccessive con dei chioschi regolamentati per dare vivibilità e sostenibilità ai cittadini romani ed all’ecosistema che li circondava. Ma l’essenza del luogo era ancora lì, immutata, quasi aleggiasse in quella brezza marina, quasi si nascondesse in ogni granello di sabbia, quasi vivesse nell’ombra di ogni ombrellone.
La libertà e la tolleranza, la natura e la civiltà sono ciò che mi ha subito colpito di questo luogo e poi ancora l’armonia delle persone, dei cittadini di Roma, con il luogo che li circondava.
Del resto i romani “abitavano” questa spiaggia da sempre, la arredavano con il loro corpo, la amavano profondamente perché è il luogo che riusciva a farli esprimere al meglio. Per chi vive nella città eterna nessun altro terreno demaniale è mai stato così pubblico come la spiaggia di Capocotta: ci si sentiva liberi di andare dove si vuole, di fare ombra dove conviene, di parlare con chi si desidera, in una piazza che facilitava enormemente le relazioni, un messaggio, enormemente importante, contro la società dei consumi: le persone che vanno al mare erano felici, semplicemente per essere dentro all’ecosistema sociale della spiaggia, che non necessità dei bisogni effimeri creati dalla crescita economica che dividono e rendono schiavi.
A Capocotta non si andava al mare per stare da soli, ma per condividere la fonte di energia primaria, il sole, in compagnia per il piacere di far parte del paesaggio, paesaggio fatto di uomini, la più grande opera di land-art del mondo, ovvero l’Agorà.
Tutto questo catturò da subito la mia attenzione ed iniziai a diventarne il testimone, con la mia macchina fotografica, raccontandone le atmosfere, i volti, i gesti, la natura in un ritratto infinito del luogo e della gente che lo abita che dura da oltre 12 anni.
Raccontando un oasi di pace in cui i conflitti sociali, quelli politici e anche quelli economici non erano che un eco lontano che si perdeva nel rumore delle onde del mare. Un oasi fatta di tolleranza in cui hanno sempre convissuto tutti i generi umani, sociali ed intellettuali in un grande esempio di civiltà e di libertà.
Quest’anno l’idillio è cessato, travolta dall’onda della mala politica, la politica per il potere, la politica lontana dalla gente, Capocotta è stata chiusa. Ottusi governanti lontani dal loro popolo in preda al delirio giustizialista di chi sta per essere deposto e cerca, annaspando, di correre al riparo dai danni che esso stesso ha causato con la propria corruzione, hanno posto sotto sequestro l’intera spiaggia, negandone l’accesso a tutti i cittadini, privandoli della loro oasi di libertà.
Immediata è stata la reazione di tutti. Migliaia di cittadini si sono associati spontaneamente su una pagina di Facebook intitolata “I love Capocotta”, manifestando apertamente il loro dissenso, testimoniando con foto e commenti tutto l’amore che avevano per il luogo in post commoventi, indignandosi contro le istituzioni che nei mesi successivi rincaravano la dose degli annunci mediatici con parole chiave come “ruspe”, “mafia”, “legalità”, “abusi”. Parole atte solamente a dimostrare una politica esibizionista e vuota, lontana dalle esigenze di chi dovrebbe difendere, i cittadini.
“Ostia, esercito e ruspe: così si abbatteranno gli abusi sulle spiagge”
“Capocotta, la demolizione degli abusi affidata all’esercito”
Questi sono solo alcuni dei titoli apparsi sulla stampa, scritti da giornalisti e dettati da politici che a Capocotta probabilmente non ci sono mai stati. Forti con i deboli, deboli con i forti, come hanno dimostrato altrettanti tentativi di sopprimere veri abusi in cemento nella vicina Ostia mai portati a termine per ovvie connivenze.
Una battaglia fra i cittadini uniti e la mala politica culminata in una manifestazione sulla spiaggia cui hanno preso parte più di 2000 persone lo scorso 17 aprile.
Oggi l’estate è iniziata e grazie al costante pressing emotivo della pagina, le istituzione scollate dai cittadini, per puri motivi elettorali, hanno concesso di riaprire dei simulacri dei chioschi precedenti, senza salvataggio, senza ristorazione e, probabilmente, dal destino incerto per l’impossibilità di ricreare un’economia sufficiente alla loro stessa sopravvivenza.
Guardandomi indietro oggi, anche alla luce del risultato delle elezioni amministrative, è bello constatare come Capocotta sia stata ancora una volta il terreno e lo spunto per la battaglia per la libertà dei cittadini romani, uno scontro per la civiltà combattuto su “L’ultima spiaggia”.
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Vorrei parlare di cosa significa per me la fotografia. Per me la fotografia, l’estetica della fotografia, nasce dal sentimento generato dalla percezione dell’esperienza del fotografo. Più semplicemente la fotografia è lo specchio dell’esperienza del fotografo, un’esperienza fatta dal momento che sta vivendo, dalla sua cultura, dalle sue preesistenze.
Viviamo in una società massificata, bombardati da media che non fanno altro che indurci a sognare mondi diversi, mondi altri che sono lontano da noi, da quello che siamo, solo con l’intento di farci sentire la necessità di ciò di cui non abbiamo bisogno a fini esclusivamente economici. Elevano i nostri standard di vita naturali per farci sentire la necessità di automobili sempre nuove, viaggi, orologi, beni di consumo, proponendoci subdolamente di diventare quello che non siamo. Questa è la nostra società.
Non nego la necessità dell’uomo di trovare la sua evoluzione, di espandere i propri orizzonti, ma non al costo di dimenticare le proprie origini, di tradire le proprie radici, di dimenticare quello che ci circonda, il luogo che viviamo, la vita di ogni giorno. La gentrificazione divora costantemente le tracce residue del nostro vivere quotidiano sostituendole con stereotipi artefatti frutto di studi di marketing. Sono scomparse le botteghe, gli alimentari sotto casa, i piccoli luoghi di aggregazione che davano un senso allo scorrere del tempo, sostituiti da supermarket, centri commerciali, multisale. Ma non è solo questo. In questa onnivora corsa al consumo sta scomparendo l’uomo, il suo pensiero, la sua sensibilità e la sua voce, sostituito da una moltitudine sempre più sorda ed insensibile alle esigenze dei singoli e delle minoranze.
Un po’ per tutto questo, un po’ per sopravvivere alle continue contraddizioni che tutto questo genera, siamo diventati sordi e ciechi a quello che ci circonda. La vita “ci” scorre grigia addosso nell’attesa della prossima iniezione di adrenalina, incapaci di ribellarci o anche solo di godere di quello che abbiamo vicino.
In questo quadro la fotografia ed il fotografo assolvono il compito di recuperare, con la propria visione, con la propria ed univoca sensibilità estetica, il mondo che ci circonda e restituirlo allo spettatore interpretato, digerito e ricomposto affinché ciò che gli viene celato, ritorni evidente con le dovute proporzioni.
Che sia il racconto di un luogo o di un fatto, la fotografia lo riporterà filtrato dal sentimento estetico del fotografo. Non esiste una fotografia obbiettiva, documentale, assoluta. La fotografia è solo soggettiva e quotidiana.
La fotografia a Km0 è per me intimamente connessa con il mio pensiero di sostenibilità e recupero di valori antichi e, forse, legata alla ricerca più profonda di me stesso e del senso di questa vita sulla terra. Oserei dire quasi una fotografia esistenziale.
Ho sempre avuto bisogno di sentirmi impegnato, di sentirmi parte di qualcosa, di capire quello che mi circonda, la natura delle cose. Nella mia vita ho attraversato periodi di grande sofferenza per via di inevitabili drammi familiari. Ma non è stata una sofferenza fine a se stessa, la considero come un contributo alla mia formazione. Ho subito delle lacerazioni profonde, ma non le vedo come tali, ma come il mezzo attraverso il quale ho scoperto la mia anima sensibile. Oggi le ferite si sono rimarginate e guardo con orgoglio le cicatrici che mi hanno portato ad essere quello che sono. A volte rimpiango una sana dose di superficialità che mi dia quella leggerezza che mi permetta di evitare di scontrarmi spesso con le durezze della vita, ma in fondo non vorrei essere diverso.
Tutto questo ha accresciuto la mia capacità di essere empatico con il mondo, con i suoi problemi, di guardarlo con un occhio disincantato e di apprezzarlo nonostante le sue contraddizioni, senza fuggirlo.
Il mio spirito resiliente, che considero un po’ come un superpotere, mi consente di vedere il lato positivo nelle cose e di affrontare i problemi senza lasciarmi vincere, cercando soluzioni.
Tutto questo, messo insieme, ha una naturale influenza sul mio modo di vedere le cose, sulla mia fotografia. Forse per questo riesco in qualche modo ad astrarmi da situazioni genericamente riconosciute come di degrado ed a raccontarle con un occhio disincantato e distante ma mai distaccato. Sono sempre coinvolto in quello che vedo, ma a modo mio.
Non nego una certa dose di soddisfazione nel portare all’attenzione dello spettatore i punti critici e le problematiche del nostro vivere quotidiano, vestendole ed interpretandole di una “leggerezza” che possa bypassare lo shock violento del reportage per arrivare ad un livello più profondo di coscienza e di riflessione sulla società che viviamo.
Per me la fotografia ha un enorme risvolto sociale ed educativo ma penso che da tempo ne sia stato fatto un abuso determinato da necessità puramente mediatiche. Io sono più incline ad un approccio meno fondato sulla violenza dell’immagine e più sulla riflessione. In fondo penso che la poesia educhi più della cronaca.
Tutto questo in sintesi per testimoniare semplicemente il fatto che la fotografia è il nostro specchio. In fondo, ogni volta che guardiamo, che puntiamo il nostro obbiettivo verso un soggetto, che componiamo nella mente e poi attraverso il mirino quella piccola porzione di ciò che ci circonda fermando quell’istante, non facciamo altro che fotografare noi stessi.
Tante volte mi capita di andare in giro e di guardare, in macchina, in motorino, a piedi, senza avere l’apparecchiatura fotografica con me e mi rendo conto che il mio sguardo non si ferma, i miei occhi continuano a vagare sul paesaggio, incessantemente, alla ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una chiave di lettura, di un’inquadratura, di un punto di vista, che prima di essere di una fotografia è il mio, della mia mente e della mia coscienza. E’ allora che mi rendo conto che il fotografare e l’essere un fotografo non è una professione, né un virtuosismo tecnico, né l’atto del riprendere la realtà con l’apparecchio fotografico e neppure la fotografia stessa. Essere un fotografo e fotografare è un modo di esistere e di rapportarsi col mondo. Se fossimo consapevoli di questo, capiremmo che le fotografie sono solo alcuni degli attimi di una vita passata a fotografare. E migliori saremo noi, come esseri umani, migliori saranno le nostre fotografie.
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